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PUBBLICAZIONE SUL WEB E DIRITTO ALL’OBLIO

La recente giurisprudenza ribadisce che la tutela del diritto alla reputazione va contemperata con il diritto di e alla informazione, nonché con il diritto di cronaca; ma il soggetto interessato ha diritto a che l’informazione che lo riguarda risponda ai criteri di proporzionalità, necessità, pertinenza allo scopo, esattezza e coerenza con la sua attuale ed effettiva identità.

Pertanto, sussiste il diritto all’oblio e, cioè, a che non vengano ulteriormente divulgate informazioni (potenzialmente) lesive della reputazione in quanto divenute prive di interesse rispetto alla collettività, sia pure locale, stante il lasso di tempo intercorso dall’accadimento del fatto che ne costituisce l’oggetto, sicché il relativo trattamento viene a risultare non più giustificato.

PIGNORABILITA’ DI STIPENDI E PENSIONI

La Corte Costituzionale, con la recente ordinanza n. 91 del 28.4.2017, ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale Ordinario di Viterbo, in funzione di giudice dell’esecuzione, con riferimento all’art. 545, comma 4, c.p.c. nella parte in cui non prevede l’impignorabilità assoluta di quella parte della retribuzione necessaria a garantire al lavoratore i mezzi indispensabili alle sue esigenze di vita (come invece avviene per il trattamento pensionistico).

L’art. 545, comma 4, c.p.c., come noto, stabilisce che le somme dovute dai datori di lavoro privati a titolo di stipendio, di salario o di altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a causa di licenziamento, possono essere pignorate nella misura di un quinto.

Il Tribunale Ordinario di Viterbo ha dedotto che tale disposizione violerebbe, tra gli altri, l’art. 3 della Costituzione ed il principio di eguaglianza e di ragionevolezza ivi sancito, nella parte in cui non prevede l’impignorabilità assoluta di quella parte della retribuzione necessaria a garantire al lavoratore i mezzi indispensabili alle sue esigenze di vita (come avviene invece per il trattamento pensionistico) e, in via subordinata, nella parte in cui non prevede le medesime limitazioni in materia di pignoramento di crediti tributari introdotte dall’art. 3, comma 5, lett. b), del decreto-legge 2 marzo 2012, n. 16, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 26 aprile 2012 n. 44, che ha introdotto l’art. 72-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602.

Secondo il Giudice rimettente, esisterebbe una disparità di trattamento, innanzitutto ed in linea generale, tra pensionato e lavoratore attivo: il pensionato, stando al regime di impignorabilità consolidatosi a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 506 del 2002, riceverebbe una tutela della propria pensione (che potrebbe essere considerata anche come una retribuzione differita) diversa e maggiore di quella che riceve un lavoratore attivo, per il quale, invece, vale unicamente la limitazione di un quinto prevista dal quarto comma dell’art. 545 c.p.c., che prescinde, a differenza di quanto avviene per il pensionato, dal riferimento al minimo indispensabile necessario al soddisfacimento delle esigenze primarie di sopravvivenza del lavoratore medesimo e della sua famiglia.

Sempre secondo il Giudice rimettente, esisterebbe una disparità di trattamento anche in relazione al regime della riscossione dei crediti erariali, in quanto rispetto al recupero del credito erariale il debitore risulterebbe, paradossalmente, maggiormente tutelato rispetto ai casi di esecuzione dei crediti c.d. comuni.

La Consulta ha dichiarato la questione manifestamente infondata, avendo ritenuto in primis che la tutela, quale principio di ordine generale, della certezza dei rapporti giuridici, in quanto collegata agli strumenti di protezione del credito personale, non consente di negare in radice la pignorabilità degli emolumenti, ma di attenuarla per particolari situazioni la cui individuazione è riservata alla discrezionalità del legislatore.

Quanto all’asserita violazione del principio di eguaglianza, la Consulta ha ritenuto che le argomentazioni del giudice rimettente non fossero condivisibili sia in relazione al regime di impignorabilità delle pensioni, sia, in via subordinata, in relazione al neo-introdotto art. 72-ter del d.P.R. n. 602 del 1973, attesa l’evidente eterogeneità dei tertia comparationis, ovvero la diversità delle situazioni poste a confronto, rispetto alla disposizione impugnata.

FACEBOOK E’ TITOLARE DEL TRATTAMENTO

In Irlanda del Nord, la Court of Appeal in Northern Ireland ha emanato una attesissima sentenza in materia di responsabilità di Facebook per l’abuso di informazioni riservate e ha ribaltato la decisione di primo grado, la quale stabiliva che il noto social network non fosse considerabile titolare del trattamento di dati personali. Invece, i giudici d’appello hanno affermato che Facebook Ireland deve essere ritenuta “data controller” ai sensi della sezione 5 del Data Protection Act 1998, rimanendo legittimata, tuttavia, ad invocare la sua qualità di hosting ai sensi della direttiva sul commercio elettronico contro la domanda di risarcimento del danno per violazione del medesimo Data Protection Act 1998. In questa decisione, la contraddizione tra l’affermazione di applicabilità della direttiva sul commercio elettronico da un lato e la disciplina britannica sui dati personali dall’altro (alla quale è sottoposta Facebook Irlanda) risulta evidente e la Corte d’Appello nordirlandese cerca di appianare tale contraddizione specificando che, nonostante la protezione dei dati sia esclusa dalla disciplina del commercio elettronico, le pagine Facebook e i relativi commenti invece ricadano sotto questa disciplina. Tuttavia, la Corte ha trascurato di affrontare la circostanza secondo cui agli utenti debba essere fornito un rimedio efficace per la tutela del loro diritto alla privacy, senza che tale strumento giuridico debba sussistere a seconda del meccanismo tecnico utilizzato per il trattamento dei dati.

E’ LECITO CREARE LINK AD OPERA DI TERZI?

Attraverso la recente sentenza C-527/15 del 26 aprile 2017, la Corte di Giustizia Europea ha fornito importanti indicazioni in merito alle conseguenze derivanti dal reclamizzare, all’interno della propria pagina web, contenuti di terzi tutelati dal diritto d’autore.

Nel caso di specie postosi all’attenzione dell’organo giudicante europeo, un’azienda titolare di un sito di e–commerce vendeva sulla propria piattaforma un lettore multimediale integrato da delle particolari estensioni (c.d. “add-ons”), mediante le quali, una volta collegato il lettore multimediale ad uno schermo, l’utilizzatore del lettore avrebbe potuto accedere – senza l’autorizzazione dei titolari del diritto d’autore – ad una serie di siti web contenenti opere protette. Tale fondamentale aspetto veniva ovviamente reclamizzato all’interno della piattaforma di e-commerce, nella quale si sottolineava come il descritto lettore multimediale avrebbe consentito di guardare gratuitamente e facilmente, su uno schermo televisivo, materiale audiovisivo disponibile su internet senza richiedere alcuna autorizzazione preventiva.

Alla luce di tali circostanze, la Corte di Giustizia Europea è giunta alla conclusione di ritenere integrata una violazione del diritto d’autore dal momento che, nel caso in analisi, il gestore della piattaforma e-commerce ha coscientemente consentito “ai suoi clienti l’accesso a un’opera protetta” diffusa sul web – in difetto dell’autorizzazione del titolare dei diritti -, ponendo in essere una comunicazione al pubblico illecita (punto 31).

Sotto altro profilo, nella pronuncia in commento, è stato evidenziato che l’operatore che ponga in essere “un atto di riproduzione” è esentato dall’ottenere il consenso del titolare dei diritti, solo qualora “tale atto”: (i) “sia temporaneo”; (ii) “sia transitorio o accessorio”; (iii) “sia parte integrante ed essenziale di un procedimento tecnologico”; (iv) “sia eseguito all’unico scopo di consentire la trasmissione in rete tra terzi con l’intervento di un intermediario o un utilizzo legittimo di un’opera”; (v) “sia privo di rilievo economico proprio” (punto 60), chiarendosi che “tali requisiti hanno carattere cumulativo, nel senso che la mancata osservanza di uno solo di essi implica che l’atto di riproduzione” non può avvenire in difetto della preventiva autorizzazione del titolare dei diritti (punto 61).

OPPOSIZIONE A DECRETO INGIUNTIVO

Sussiste litispendenza tra opposizione a decreto ingiuntivo e azione di accertamento negativo del credito.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione con la recente ordinanza n. 9712 del 14 aprile 2017.

I Supremi Giudici hanno ribadito il principio secondo cui “allorché la parte, nei cui confronti sia stata chiesta ed ottenuta l’emissione del decreto ingiuntivo, proponga in via riconvenzionale, opponendosi al decreto monitorio, domanda di risoluzione del contratto sul quale si fondano le pretese avverse, sussiste litispendenza tra detto giudizio e quello avente parimenti ad oggetto la risoluzione per inadempimento del vincolo contrattuale, proposto dallo stesso destinatario del decreto ingiuntivo anteriormente all’atto di citazione in opposizione ma successivamente al deposito del ricorso monitorio, sicché retroagendo gli effetti della “pendenza” della controversia introdotta con la domanda di ingiunzione al momento del deposito davanti al giudice competente, sarà il giudice della domanda introdotta prima della citazione in opposizione, ma dopo il ricorso per ingiunzione, a disporre la cancellazione della causa dal ruolo, ai sensi dell’art. 39, primo comma, cod. proc. civ.”.

L’anatocismo è vietato e basta. Indipendentemente dal tempo.

Cassazione Civile, sentenza 9127/2015

Continua la linea dura della giurisprudenza nei confronti delle banche, le quali dopo la bocciatura della prassi della capitalizzazione trimestrale degli interessi adesso vedono cadere anche la possibilità di farlo annualmente.

L’intervento della Cassazione di ieri ha definitivamente sentenziato che l’anatocismo è vietato tout court. Indipendentemente dall’arco temporale in cui sia applicata la pratica scorretta.

Questo il principio affermato dalla prima sezione civile nella sentenza n. 9127/2015 depositata il 6 maggio che ha dato ragione al titolare del contratto di apertura del credito con garanzia ipotecaria cui era pervenuta un’ingiunzione dall’istituto bancario per il pagamento di oltre un milione di euro.

A nulla sono valse le obiezioni della banca secondo la quale, per parte della giurisprudenza, pur essendo dichiarata illegittima la capitalizzazione trimestrale degli interessi debba ritenersi implicita la sussistenza di usi normativi che legittimano la capitalizzazione annuale.

Per la S.C., invece, tale giurisprudenza va smentita perché non solo non esistono regole ad hoc, ma nella realtà storica (e cioè nei cinquant’anni che hanno preceduto gli interventi del legislatore degli anni Novanta in materia) non si rileva alcuna consuetudine o uso alla capitalizzazione annuale degli interessi debitori né di necessario bilanciamento con quelli creditori.

In sostanza, l’anatocismo è assolutamente arbitrario.

Giova ricordare che la “fine dell’anatocismo” è stata disposta per legge, l. n. 147/2013 (c.d. legge di stabilità 2014) che ha modificato il testo unico bancario (TUB) ponendo fine alla prassi degli interessi sugli interessi dei conti correnti.

Tuttavia, il legislatore aveva subordinato l’entrata in vigore della disposizione ad apposita regolamentazione del Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio, ma le recenti pronunce del Tribunale di Milano (del 25 marzo 2015 e del 3 aprile 2015) hanno sostenuto che l’illegittimità dell’anatocismo ex lege è da ritenersi applicabile indipendentemente dalle delibere attuative del Cicr e, dunque, a far data dall’intervento del legislatore.

E se nel caso portato all’attenzione della Cassazione, tuttavia, dovrà decidere il giudice del rinvio (considerata la mancanza di specifiche contestazioni del ricorrente in sede di appello sulla riduzione effettuata autonomamente dalla banca, la quale aveva decurtato spontaneamente gli interessi anatocistici trimestrali prima di proporre l’ingiunzione), la sentenza - salvo che le banche non trovino una soluzione “stragiudiziale” riducendo in via spontanea gli interessi anatocistici - aprirà la strada ad un’ondata di ricorsi da parte dei cittadini che, richiedendo un’apertura di credito, un mutuo o un finanziamento, hanno visto lievitare l’importo per via dell’esosa e illegittima clausola sulla capitalizzazione degli interessi. 

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